17 Nov FACCIAMO DUE PAROLE O FACCIAMO COACHING? La maledizione delle professioni di aiuto
Capita chi a chi fa il mio mestiere, e in generale a chi svolge una professione intellettuale, e come tale immateriale e intangibile, di sentirsi rivolgere richieste del tipo “Hai un minuto per fare due parole su un problema che devo risolvere”?
Capita ai commercialisti ai quali chiediamo di fare due conti, agli architetti a cui chiediamo di abbozzare un paio di schizzi, agli avvocati a cui chiediamo di formulare due pareri veloci, ai terapeuti e ai coach a i quali chiediamo di “fare due parole”.
Come se due parole bastassero.
Come se un minuto bastasse.
Come se mettere a disposizione la propria abilità fosse gratuito.
Come se non fosse il nostro mestiere, la nostra competenza specifica e distintiva. Quella con cui ci guadagniamo da vivere.
E guai a sottrarsi, altrimenti si passa per sgarbati!
La verità è che nel rispetto della nostra professione intellettuale e del problema di chi ci interpella, non è serio, né etico, né professionale e tanto meno funzionale affrontare frettolosamente e superficialmente la questione.
Parlando di coaching, che mi riguarda direttamente, pensate solo che una della maggiori abilità richieste ad un coach consiste nell’aiutare le persone a definire e a consolidare i propri obiettivi. A focalizzarsi sulle soluzioni (più che sul problema), orientando al risultato.
Per definire un obiettivo – stato o risultato desiderato dalla persona – occorre ottenere risposta alla domanda “cosa vuoi?”.
Ora, siamo certi che un minuto e due parole bastino?
Direi di no.
È certamente una questione di quantità, ma soprattutto di qualità del lavoro e del percorso che si intende svolgere.
Se è vero, come è vero, che “gli obiettivi sono la fonte della motivazione e possono stimolare dei potenti processi di auto-organizzazione in grado di mobilitare sia le risorse consce, sia quelle inconsce” (Dilts), alla loro definizione va dedicato un tempo di qualità. Pena il raggiungimento del risultato.
Credo ci sia ancora un antico pudore a chiedere aiuto: un misto di timore e vergogna che inibisce l’azione. Credo anche che ci abbiano invertito i concetti di forza e di debolezza, inquinando la nostra percezione: è più forte colui che affonda da solo piuttosto che chiedere aiuto o chi, consapevole dei propri limiti, si fa supportare dove serve da persone competenti?
In definitiva, ci ricorda John Ruskin, ciò che pensiamo o sappiamo o crediamo è di scarsa importanza. Importa solo ciò che facciamo.
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